Ecco alcune delle osservazioni e argomenti che abbiamo condiviso, e su cui abbiamo indagato assieme, nella serata di giovedì scorso.Â
È incredibile come non vediamo la realtà per quello che è, ma per ciò che ci aspettiamo o siamo abituati a vedere. La verità è che vediamo quello che siamo abituati a cercare o su cui ci focalizziamo. Per esempio, quando non vogliamo qualcosa, cosa appare nella nostra percezione? Quello che non vogliamo. O quando ci siamo abituati a vedere il nostro compagno in un certo modo, non riusciamo a vederlo diversamente dalla nostra immagine; non vediamo le sfumature diverse, esse ci sfuggono completamente. Medesima cosa accade con i nostri figli. Allora, come osiamo parlare di relazione?Â
Abbiamo approfondito come questa descrizione non è nuova. La tradizione vedantica, in particolare l’Advaita Vedanta, ci racconta questa intuizione da millenni: non siamo in contatto con la realtà , ma con quello che pensiamo e interpretiamo della realtà . Questo è soprattutto valido nelle relazioni, e anche nel rapporto con noi stessi. Anche le neuroscienze ci sono arrivate, con l’interpretazione del cervello come macchina predittiva e non come meccanismo passivo davanti agli stimoli (come abbiamo approfondito nel cap 7 del libro).
Un altro modo di dire la stessa cosa è che ci relazioniamo solo con la conoscenza della realtà , che però non è mai libera, perché é sempre predeterminata dal passato. La relazione è sempre con ciò che si conosce. Nel mondo esterno ci serve, perché la conoscenza è emersa come un meccanismo per muoverci meglio nel mondo esterno, come una rappresentazione della realtà basata sulla memoria, ma non è mai la realtà , così come l’idea che possiamo avere di un nostro figlio non è nostro figlio, né il menù è il cibo!
La conoscenza rappresenta un sapere a priori, quindi condizionante, fatta di preconcetti e pregiudizi (giudizi a priori). Conoscere è solo un riconoscere idee, concetti e immagini: niente di veramente nuovo sotto il sole. Quando governa il nostro mondo interiore e le nostre relazioni, però, produce disastri.Â
La nostra esperienza della realtà e delle nostre relazioni è sempre tinteggiata dal passato, ovvero non è mai pulita né trasparente. L’esperienza del bambino, invece, è l’opposto, perché è fresca, nuova e indeterminata. Il bambino non sa a priori, ma scopre nel momento e, spesso, fa fatica a descrivere quello che sente, non perché non sia capace, ma perché è nuovo. Come si fa a descrivere un’esperienza che non si conosce? Che è nuova, ma con un linguaggio che è vecchio? Noi genitori e adulti esercitiamo una grande violenza sul mondo dei bambini, quando a ogni costo cerchiamo di determinare la loro esperienza e insegniamo loro a farlo, tramite il nostro intervento.Â
Non c’è libertà nella relazione quando si cerca di capire l’altro, ma quando lo si sperimenta!
La forza della vita ha sempre cercato di farci uscire dal binario della meccanicità , attraverso la consapevolezza, che è un’esperienza senza scelta (se è consapevolezza) ed emerge quando siamo in grado di esprimere l’intenzionalità di vedere o vivere le cose senza agenda, senza motivo e senza desiderio di arrivare da nessuna parte.Â
La vera consapevolezza ci fa riconoscere come le relazioni siano una rivelazione. L’altro diventa una rivelazione, diventa un qualcosa che ci tocca e ci lascia senza parole o etichetta.