Episodio 7: Quando le immagini fanno uso delle relazioni, ingannando la percezione. Estratto dal Capitolo 5 del libro. "Ti vedo figlio mio, perché ho visto me stesso". 

Il cervello umano è una “macchina generatrice di immagini”. Andiamo in un negozio, il commesso non è gentile, è secco, forse ha avuto una giornata tosta, chissà. Alla prossima volta che andiamo in negozio, la nostra percezione è già condizionata rivedendo la persona con gli occhiali dell’ultimo incontro. Il cervello ha generato un’immagine, etichettando l’impiegato come “così e così” e, a dire il vero, raramente superiamo quella conclusione che il nostro cervello ha generato. E non finisce qui. Se andiamo con un collega o un amico, trasferiamo loro la nostra impressione, assicurandoci che anche loro vedano e confermino la nostra percezione. Il rapporto con l’impiegato è morto a meno che, per qualche motivo, siamo spinti ad abbandonare quell’immagine. In un rapporto come quello con un commesso di negozio, forse riusciamo a superare una tale immagine, ma, in quelli più intimi, come quello con il nostro partner, la famiglia, gli amici, i colleghi e i figli, la verità è che non ci riusciamo. L’immagini dei nostri cari non possono morire così facilmente, le nutriamo e le rafforziamo in continuazione. 

Quando le immagini sono all’opera, non c’è libertà nelle relazioni, il passato ci domina. Le persone non sono le immagini che il nostro cervello sta generando anche se ci comportiamo in modo prevedibile e monotono. Allo stesso modo, i nostri figli non sono le etichette che applichiamo su di loro né noi siamo quelle che gli altri ci attaccano. 

Un monaco con cui siamo diventati amici mi diceva vent’anni fa: “prendi coscienza di ciò con cui ti stai relazionando, se con la persona o con l’immagine che hai proiettato. Questo è il primo e l’ultimo passo del tuo viaggio spirituale”. Discutevamo su tanti argomenti, ma su questo mi sono sempre sentito zittito. Percepivo grande chiarezza e verità in quelle parole. Era inevitabile vedere come le relazioni sono governate dalle immagini che costruiamo attorno alle persone. L’assegnazione di etichette era un processo continuo dentro di me, come se le persone fossero entità statiche senza cambiamenti e fluttuazioni. 

Senza conoscere affatto la persona, la mente costruisce una storia. Le immagini non sono altro che una storia che portiamo avanti per giorni, mesi o persino per tutta una vita. Ogni volta che ci incontriamo o ci relazioniamo con l’altro, l’immagine affiora per prima, offuscando la nostra percezione e condizionando le nostre emozioni e sentimenti, peggio di tutto, reagiamo, diventiamo impotenti e incapaci di vedere la persona di fronte a noi senza occhiali, senza preconcetti. Hai mai evitato di andare da qualche parte a causa di qualcuno? C’è stato un tempo in cui, per mesi, ho smesso di comprare il pane nel miglior panificio vicino perché un giorno il proprietario aveva avuto un atteggiamento scortese nei miei confronti. La mente ha costruito un’immagine, etichettandolo come una persona ostile, caricando ovviamente la mia esperienza. 

La auto-consapevolezza, ovvero quella capacita di essere coscienti di se stessi, è stata un dono dell’evoluzione ma con un alto costo: ci siamo separati dal flusso dell’essere in cui vivono tutte le altre specie, ma anche i bambini. Quale paradosso, la specie dominante nell’evoluzione della natura sulla terra, ha perso il contatto con la natura indivisibile della realtà. Le persone abbiamo giorni difficili, fluttuando proprio come il clima, eppure nel processo di etichettare tutto, ci siamo confusi: l’etichetta non è la realtà, ma una concettualizzazione frutto di un istante, così come il menù non è il cibo. L’immagine è come una foto, cattura solo un momento che è comunque andato, ma che noi lo manteniamo vivo. I bambini non conoscono questo meccanismo finché non sono cresciuti e lo hanno imparato. 

Etichettare e costruire immagini è un processo che non possiamo evitare nelle relazioni, specialmente nella genitorialità. Le recenti teorie delle neuroscienze descrivono il lavoro del cervello come anticipatorio e predittivo, deducendo gli scenari più probabili che assicurano la sopravvivenza del corpo attraverso processi interni come l’omeostasi, “mantenendo uno stato interno stabile che persiste nonostante i cambiamenti” creando un modello percettivo di ciò che succederà dopo. Come il prof. Lars Mukli afferma: “la visione inizia con un’aspettativa di ciò che è dietro l’angolo”. Questa è la caratteristica principale del cervello, un “software di elaborazione predittiva”. Attraverso il processo di etichettare, proiettare immagini e costruire aspettative, il cervello rappresenta una realtà che include le persone. Genera una rappresentazione che è “conosciuta” per creare un senso di sicurezza, protezione e familiarità, nonostante i cambiamenti continui. La necessità intrinseca di minimizzare la sorpresa, ha un costo a livello relazionale. Ma è inevitabile? 

Le parole del mio amico monaco impiegarono mesi a decantare dentro di me, portando le prime intuizioni. Non è uno di quei principi che assimili una volta e poi hai concluso. Riassume così bene le ultime scoperte della ricerca sul cervello. Prima di sprecare anni nello sviluppo personale, assumendo che sia necessario cambiare dentro di sé qualcosa, è fondamentale diventare consapevoli del continuo processo di creazione d’immagini, senza condannare o combatterlo. È fondamentale “vederlo in azione”, come avviene da solo, e non ce ne siamo mai accorti. Quando l’impossibilità del cambiamento ci colpisce, la libertà entra in casa. È importante concentrarsi sul vederlo e non cercare di cambiarlo. Ciò che va prima, va prima. Ma anche se fosse possibile, qualsiasi cambiamento richiederebbe un profondo riconoscimento del punto di partenza: cosa cambiare esattamente. 

Quando veniamo “colpiti” una ed un altra volta dalla consapevolezza dell’impossibilità di cambiare questo processo mentale, stranamente diventano immuni a questo meccanismo che scavalca le nostre relazioni. Vedere è essere liberi. 

Il viaggio della consapevolezza inizia sempre dove siamo e finisce anche lì! e non dove vorremmo essere…

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Sull'autore

Daniel Bravo

Laureato in Economia, sono nato a Santiago del Cile. Vivo attualmente a Valeggio sul Mincio. Coach, Trainer e Temazcalero da oltre 20 anni, sono anche padre di un figlio di 10 anni. Grazie a lui ho avuto l’ispirazione e coraggio di scrivere il mio primo libro: Ti Vedo Figlio? Esperienze di un Padre con la Verità".

Ho creato il primo percorso di Coaching del Risveglio "Genitorialità: Scuola di Vita",  che intreccia l’esperienza vissuta come padre e 22 anni di meditazione e ricerca spirituale. Riflette un percorso interiore con oltre 15 viaggi in India e Messico e circa 200 workshop/temazcal come Coach/Temazcalero.

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