La maggior parte di noi è stata cresciuta vivendo la vita come se fosse una favola, finché non finisce la trance e tocca affrontare l’ultima volta per la prima volta. Forse è stato tuo nonno, tua madre, un caro amico, una ex o un figlio che ti ha regalato quel momento. 

In quelle circostanze ti rendi conto per un attimo del fatto che il guscio esterno vale davvero poco. Anzi, saresti disposto ad abbandonare tutto, per un ultimo sguardo, un ultimo sorriso o un altro momento con quella persona. Ma la verità è che ci ricorda la realtà della nostra stessa morte – una realtà per la quale non abbiamo risposte, e non le avremo mai!

Se siamo aperti, possiamo iniziare un viaggio di riconoscimento, col cuore più aperto e vulnerabile. L’eredità di quella apparente “perdita” si trasforma in vita e nella bellezza di qualcosa che ci resta dentro.

La vera tomba della morte abita nel cuore di chi non sa vivere, parafrasando il lucido pensiero del poeta Jean CocteauLa morte è l’unico destino certo che abbiamo, almeno per il corpo, anche se c’è chi ritiene che neanche il corpo muoia, perché sia l’energia che la materia non si distruggono mai e possono solo trasformarsi. Il corpo sarebbe nato con il Big Bang e morirebbe con il Big Freeze (la morte termica), tra qualche triliardo di anni.

 

 

“Chi muore?” si chiedeva Neruda, e la sua risposta era: “muore lentamente chi non viaggia, chi non trova grazia in se stesso, chi diventa uno schiavo dell’abitudine, e non cambia il colore dei suoi abiti.”

Fare pace con la vita è il modo più autentico per riconciliare la paura della morte.

Quando questo succede, la morte diventa una maestra, e forse la miglior compagna di vita. Ecco la rilevanza monumentale delle nostre relazioni: noi non abbiamo delle relazioni, noi siamo le nostre relazioni!

“Anche la morte muore” diceva J.E Pacheco, un altro poeta, perché ogni volta che la vita si sprigiona nella propria esperienza, “neanche la morte perdura”. Vivere è il miglior antidoto per fare pace e integrare il mistero della morte. 

“Cos’è morire? Morire è prendere il volo, senza ali, senza occhi e senza corpo”, diceva invece Nandino, sempre un poeta. Morire è accettare che non c’è altro che questo, e che questo è tutto, ed è indescrivibile. L’unica cosa che abbiamo avuto o vissuto nella nostra vita è stato sempre questo: qui ed ora, ogni momento.

Se chiedi a un bambino qualcosa sulla morte ti dirà: «non lo so»; ma la cosa più bella di quella risposta è lo sguardo infinito del bambino, che non ha paura… Chi sa, teme; chi non sa, non ha motivo alcuno per temere. 

Avere paura della morte vuol dire non essere del tutto vivo. Essere troppo focalizzati sul sopravvivere psicologicamente, giorno dopo giorno, ecco la nostra gabbia. Chi pensa troppo al futuro e pianifica ogni attimo della propria esistenza, senza mai smettere di calcolare, senza mai spettinarsi i pensieri al vento, senza fare una follia all’anno (come diceva il Poeta della luce, V. Huidobro) è vittima della paura. Chi si sente in colpa, nelle sue relazioni o verso un caro già partito, o chi ha cose in sospeso dentro di sé, anche lui/lei, soffre la paura psicologica… Chi ha il cuore gonfio di vita, come i bambini, senza gonfiarsi troppo per questo, non credo possa avere paura. 

Perché temere quello che è inevitabile? Ha più senso temere ciò che si potrebbe evitare. 

L’essere umano è l’unico animale cosciente di dover morire: Penso, quindi soffro. 

«Ci siamo abituati a relegare nell’oblio la consapevolezza della nostra finitudine, abbiamo come cultura moderna cancellato la riflessione e la consapevolezza della morte, eliminando ogni senso di finitezza, alimentando l’illusione di un “uomo eterno” che può tutto, e che non deve rendere conto a nessuno”, compresa la natura» dice la professoressa Ines Testoni, dell’Università di Padova, studiosa della morte. Infatti, anche il linguaggio associato alla morte e al dolore viene persistentemente evitato, promuovendo ovunque il vivere, come un dover raggiungere dei traguardi, delle mete, per arrivare chissà dove, dimenticando quasi del tutto come la vita non sia una destinazione ma il viaggio, perché l’unica destinazione certa è la morte.

Chi ha paura di parlare della morte, della “sua propria morte”, forse ha paura di vivere, o forse non è del tutto vivo…

Parlare della morte, della “nostra propria morte”, fa bene perché ci riporta in vita,

ci risveglia ai piccoli istanti di eternità di cui è fatta l’esperienza quotidiana. Come lo sguardo perduto di uno sconosciuto, il pianto furtivo di un bambino, una foglia secca che cade dal ramo, o una risposta nervosa del tuo compagno/a.

Vivere è sciogliere il rimandare psicologico, che è la più alta forma di ipocrisia, perché ti ruba la libertà per sempre. La vita può essere vissuta solo qui ed ora; la morte, anche; nell’innocenza di non sapere assolutamente nulla, affidandosi al mistero di queste due sorelle che condividono l’esistenza, una di fianco all’altra: vita e morte. 

La morte non è mai stata un evento futuro, ma accade segretamente ogni giorno, e ci sfugge, sorridendo.  🙂 

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Teme la morte chi ha paura di vivere... 


Daniel Bravo 

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Sull'autore

Daniel Bravo

Laureato in Economia, sono nato a Santiago del Cile. Vivo attualmente a Valeggio sul Mincio. Coach, Trainer e Temazcalero da oltre 20 anni, sono anche padre di un figlio di 10 anni. Grazie a lui ho avuto l’ispirazione e coraggio di scrivere il mio primo libro: Ti Vedo Figlio? Esperienze di un Padre con la Verità".

Ho creato il primo percorso di Coaching del Risveglio "Genitorialità: Scuola di Vita",  che intreccia l’esperienza vissuta come padre e 22 anni di meditazione e ricerca spirituale. Riflette un percorso interiore con oltre 15 viaggi in India e Messico e circa 200 workshop/temazcal come Coach/Temazcalero.

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